Meno incantevole di Un incantevole aprile, ma sempre godibilissimo, La Fattoria dei Gelsomini è un divertissement alla Feydeau che mette in luce le storture moraliste dell'Inghilterra di inizio Novecento in un modo che molto ricorda, a suo modo, David Leavitt.
Daisy Midhurst, bella vedova di mezza età, e la figlia Terry, bella ma ahimè ancora zitella, sono il fulcro della società mondana londinese e organizzano nella tenuta di Shillerton nel sud dell'Inghilterra, pranzi e weekend degni di nota e aperti solo a selezionati invitati – tra cui alcuni dei protagonisti: i coniugi Leigh Andrew e Rosie, Geoffrey, Mr Torrens, sir Lydford, Mr Topham eccetera. Motore della vicenda qui raccontata, uno scandalo che le colpisce direttamente e che scombussolerà il “bel mondo”; un “trauma morale” che costringerà Daisy a fuggire nella Fattoria dei Gelsomini, dono del suo defunto – e infedele – marito.
Indubbiamente la Fattoria dei Gelsomini [...] era un luogo che favoriva il rilassamento, un luogo dove prendersi un lungo periodo di riposo, a patto che si disponesse di pace interiore.
Lì, lontana da tutti e tutto, fiaccata terribilmente nel corpo e nello spirito, viene suo malgrado raggiunta da una donna che dovrebbe esserle nemica ma che si dimostra, suo opposto, in realtà, uno stimolo per analizzarsi e tornare alla vita, in barba alla propria morale e al proprio spirito giudicante.
È un romanzo figlio del suo tempo, che mette in lice tutte le storture e le idiosincrasie di una società profondamente legata a una tradizione che da lì a poco dovrà accantonare, visti i venti di guerra che soffiano sempre più forti e che, lo sappiamo, cambieranno per sempre il mondo fino ad allora conosciuto. Ne è un messaggero il conte von Vosch, membro del Reich, che arriverà sul finale, inconsapevole, a sparigliare le carte. Chissà che non sia una metafora...
Anche qui mi sono trovata in mano un romanzo piacevole, leggero ma non superficiale, dove i personaggi sono costruiti benissimo e che, anche se all'apparenza antiquati, molto ci dicono su di noi, sulla morale comune e sul modo affrontare il dolore, la tragedia (che c'è, enorme) e l'amore, al di là dei pregiudizi e dei giudizi. Una taglientissima critica, sarcastica e spietata, incarnata dal personaggio di Mumsie (madre di Rosie Leigh) – brillante, ottimista, e frivola, ma dai profondi pensieri da donna in difficoltà –, che da personaggio di contorno, diventa la protagonista indiscussa e irresistibile della vicenda. Chiudo proprio con parte di un suo monologo che credo sia molto bello e interessante, e che rappresenta un punto di svolta:
... che sarebbe di noi se non cercassimo di brillare con quel poco che abbiamo. Nessuno ti farà divertire se non dai l'impressione di divertirti già un mondo; nessuno ti darà da mangiare se sembri affamata, né ti coprirà di regali se non sembri stanca di riceverli. E poi vedo lei, distesa sul letto, sazia di bella vita e di regali da sempre, e mi dice che ne ha abbastanza. Certo che ne ha abbastanza, si vede che si è ingozzata fino alla nausea. Io invece non ne ho abbastanza, e neppure la mia Rosie, anzi, ci piacerebbe una volta tanto cavarci la voglia.
Da leggere quando si vuole un romanzo da leggere in levità e senza troppo impegno mentale.
La Fattoria dei Gelsomini, di Elizabeth von Arnim, Fazi Editore, 2018, 347 pagine. Traduzione di Sabina Terziani