Non so bene come affrontare un commento di Il peso di Liz Moore perché è un libro che mi ha veramente smossa. Capita raramente. Quindi non so bene come riuscirà questa riflessione. Parto dall’inizio. Sono rimasta molto colpita da Il dio dei boschi – per la sua leggibilità incredibile, per il finale, per la precisione nel disegnare i personaggi –, e più di una persona che conosce bene Liz Moore mi ha detto essere il meno bello. «Leggi Il peso!». E chi sono io per non seguire un consiglio letterario? Che bel consiglio! Che bel libro! Completamente diverso da quello che mi aspettavo, scritto in modo splendido, una storia strana e affascinante. La caratteristica di Moore è che non si riesce a smettere di leggere. I suoi libri sono gorghi che risucchiano.
Questa è una storia di solitudine, indubbiamente. Il tema è chiarissimo, la domanda pure: due solitudini ne fanno una grande, sopportabile, o restano separate, ognuna isolata nella propria «bolla di incomunicabilità», per citare il mio amato Beckett? La risposta che dà Liz Moore è chiara. L’incontro è salvifico, lo sforzo di aprirsi, di mostrarsi è fondamentale, catartico, in nome dell’enorme sforzo che richiedono entrambe le cose. I muri dai quali dobbiamo sforzarci di affacciarci sono diversi per ognuno. E i protagonisti del romanzo innalzano muri altissimi. Quelli di Arthur Opp servono a coprirlo, a celarlo dal resto del mondo, e nel suo caso sono, banalmente, le mura di casa sua, da cui non esce da dieci anni. Insegnava, ma si è ritirato e ora vive solo, grassissimo, andando su e giù per il pianoterra di una casa troppo grande per lui di cui non riesce a salire le scale per andare al piano di sopra, che quindi è rimasto vuoto, polveroso e pieno di ricordi dimenticati. Mangia di tutto, tantissimo, il suo modo di combattere la tristezza. Uniche sue fonti di respiro sono le lettere che da anni si scrive con Charlene Turner, sua ex studentessa, che scopre avere un figlio, Kel. Charlene gli chiede aiuto per aiutare il ragazzo negli studi e per Arthur questo diventa una scintilla... da cui tutto scaturirà, fino alla catarsi della riscoperta del mondo. A volte basta così poco, anche se per Arthur questo poco è in realtà una cosa enorme, enorme e spaventosa. La casa. La casa che è stato il suo rifugio, che per lui è un’oasi, si rende conto essere per gli altri un inferno: sporca, maleodorante, piena di schifezze. E allora chiama una ragazza delle pulizie, che sarà a sua volta foriera di mondo, di aria, di possibilità. Si chiama Yolanda, ha un ragazzo violento e, rimasta incinta, va a stare da Arthur per un po’, giovane, fresca, preziosa. Un personaggio bellissimo, Yolanda.
Mentre seguiamo la vicenda di Arthur dalla sua stessa bocca, quella di Charlene ci viene raccontata dalla bocca del figlio Kel, ragazzino sopraffatto da una madre alcolizzata e sempre triste, che cerca l’amore e la carriera sportiva e si ritrova a rincorrere un padre che non è un padre e una parvenza di normale adolescenza. Dà l’impressione di avere sempre a che fare con cose più grandi di lui: troppa tristezza, troppe aspettative, troppo alcol... Ma l’amicizia, l’affetto e un uomo che compare da un passato non suo, lo metteranno sulla strada di una ritrovata, giovanile serenità.
Solitudini simili che hanno finali diversi: tragici o salvifici, indietro o avanti, buio o luce, silenzio o suoni... Fortuna? Forza di volontà? Occasioni giuste? O solo il bisogno feroce di dare un senso alla propria esistenza? Come sempre Moore immerge i suoi personaggi nella disperazione, nel dolore, e li fa riemergere più forti, sorridenti, pieni di vita. Anche ne Il dio dei boschi fa così ed è la sua caratteristica che apprezzo di più... questo far riemergere.
Il titolo di questo romanzo straordinario è a sua volta una piccola perla: il peso è quello corporeo di Arthur? È quello dei sacchetti pieni di bottiglie che porta a casa Charlene? È quello della quotidianità di un ragazzino che sta in giro per non affrontare lo squallore della vita della madre? O quello del senso di colpa che lo stesso ragazzino prova per quella stessa azione, così necessaria e così ingiusta? O è, più semplicemente, il peso dell’esistenza che grava sulle spalle di ognuno?
Liz Moore è una maga. Una maga che scrive di uomini come se fosse un uomo. Di ragazzi come se fosse un ragazzo. E di obesi come se conoscesse perfettamente la sensazioni che si prova a esserlo. Infondendo alla scrittura tutta la potenza e la grazia della grande letteratura: quella che scava, che trivella, che interroga... e che poi lascia aperta la porta alle proprie emozioni, alle proprie riflessioni, alle proprie esperienze.
Le domande restano. A ognuno la sua risposta.
(È sembrato a me, che ho una forma di devianza per certe cose, o c’è un velato riferimento a Sarah Kane, voluto, nell’unione di due nomi?...).
Il peso, di Liz Moore, NN Editore, 2022 (2012), 363 pagine. Traduzione di Ada Arduini. Con una bella, sentita, prefazione di Andrea Donaera