Probabilmente verrò lapidata. Dopo tutti i commenti entusiasti che ho sentito e letto su questo romanzo, il mio arriva come una doccia fredda al Polo Nord. Nudi. Col cagotto. Ma non posso esimermi dal dire di essere rimasta profondamente delusa da La vegetariana di Han Kang, Premio Nobel per la letteratura 2024. Lungi da me considerarlo un Nobel immeritato, non solo perché non sono nessuno per dirlo, ma anche perché trovo ridicolo valutare un autore da un solo libro. Ne leggerò altri, per farmi un’idea più completa.
Ma perché non l’ho apprezzato come tanti altri – la maggioranza, penso – che ne hanno tessuto le lodi, spinti a leggerlo da cotanto riconoscimento mondiale? Il fatto è che io ho molti problemi con la pazzia in letteratura. Quantomeno quando mi aspetto – e qui faccio mea culpa perché ho avuto delle aspettative, che predico sempre mai si dovrebbero avere – un libro “di rottura”, coraggioso e, passatemi il termine, rivoluzionario. La prima parte, quella raccontata dal marito, l’ho amata e letta con un misto di ansia e ammirazione per questa donna, Yeong-hye che sceglie, una volta nella vita, in una Corea carica di tradizionalismi, tabù, maschilismo e formalità, di comportarsi come vuole, rifiutarsi di mangiare carne, andare i giro nuda, sbattersene delle convenzioni sociali, del marito, dei genitori, finanche a farsi del male piuttosto che.
Mi piace il mio seno, non può uccidere niente. [...] Perché sto cambiando così? Perché tutto in me diventa appuntito? Che cosa intendo trafiggere?
La seconda parte, raccontata dal cognato, marito della sorella In-hye, è molto cruda e ho amato ancora un po’ di più questa Yeong-hye così fragile e allo stesso tempo così risoluta, così determinata a non fare del male a nessuno se non a sé stessa, così pronta a cedere alla bellezza dell’arte da non accorgersi che sta subendo un abuso. Ci sono immagini bellissime di corpi e di fiori, che vanno a sovrapporsi a orribili atti sessuali, osceni e sfregianti, creando un conflitto sublime che rompe e distorce gli schemi per non ricomporli mai più. Immaginare la macchia mongolica di Yeong-hye che si deforma in atti sessuali sbagliati ma che al contempo è attorniata da fiori coloratissimi è abbagliante. Lo schifo e l’arte, quando si incontrano, che meraviglia!
Ma il problema arriva quando mi rendo conto che stiamo assistendo alla storia di una malattia mentale, la schizofrenia, e non di una ribellione cosciente, voluta, portata avanti con tenacia e raziocinio. Yeong-hye è matta. Semplicemente matta. Non c’è nessun coraggio, nessuna presa di posizione, nessuna coscienza... c’è solo dolore, incoscienza e voglia di morire.
Perché, è così terribile morire?
E non è una follia “indotta”, che in qualche modo può trovare radici nella società coreana o nel sopruso dell’uomo-padrone che è il marito, o in un volersi nascondere agli occhi del mondo per perdersi dentro sé stesse; no, è una malattia così, che viene, come un cancro o una sclerosi. Che non ha altra causa se non la sfiga, o la genetica, che sono spesso la stessa cosa. L’ultima parte, raccontata dalla sorella In-hye, si svolge interamente in manicomio, tra una fuga e un delirio, mentre assistiamo alla consunzione volontaria di una donna malata, che non ha più voglia di combattere. Si sente un albero, vuole tornare alla natura, nutrendosi di aria e infilando la testa nel terreno. Anche qui: le immagini sono splendide, la scrittura meravigliosa, poetica ma feroce. È davvero un romanzo scritto da Dio... ma la follia... quella mi ha rovinato tutto.
E anche il cognato è matto. Non è un artista che abusa della sua Musa per amore dell’arte o perché trascinato in azioni turpi da una spinta interna inarrestabile. Non è né carnefice suo malgrado, né un crudele mascherato da artista: è matto. E quindi? La follia appiattisce tutto: vale tutto e niente ha una ragione, non ci sono scelte né rischi corsi con cognizione di causa. Non mi interessa, semplicemente.
In realtà, un personaggio interessante c’è: In-hye. Sola, con un figlio da crescere, tradita e piena di sensi di colpa per il destino della sorella, tuttavia le sta vicino fino all’ultimo, mettendosi contro al marito e ai genitori, facendo da scudo mettendosi di traverso tra Yeong-hye e il mondo. Combatte e perde. Ma combatte. È lì, per me, la letteratura.
Naturalmente ne leggerò altri, ma questo mi ha lasciata perplessa...
Ero curiosa di vedere lo spettacolo tratto dal romanzo, con l’adattamento di Daria Deflorian (anche regista) e Francesca Marciano, interpretato da Daria Deflorian, Monica Piseddu, Paolo Musio e Gabriele Portoghese, ma era sold out, cosa che mi fa molto piacere. Sarà, spero, per la prossima volta.
La vegetariana, di Han Kang, Gli Adelphi, 177 pagine. Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra