Le nostre cellule si rinnovano ogni mese. Pure in questo momento mentre parliamo. [...] Quella che tu credi di conoscere è soltanto un ricordo che mi riguarda, niente di più.
È sempre molto difficile commentare un libro di Murakami, perché è un autore che lavora molto a livello viscerale. Ci si ritrova a parlare quindi di sensazioni, la cosa più soggettiva e imperscrutabile che l’uomo possieda. Io mi perdo in sensazioni a tratti piacevoli, a tratti inquietanti. C’è un crinale tra il fantasy e un reale vissuto da personaggi particolari che Murakami percorre saltellando da una sponda all’altra. In questo Nel segno della pecora, il crinale è particolarmente sottile e apre la strada al più chiaramente fantasy, successivo Dance dance dance. I personaggi ricorrono, tra l’uomo-pecora e la donna con le orecchie meravigliose.
Ma restiamo qui, in Hokkaido, con il protagonista che parla in prima persona a cui viene affidato il compito di trovare una pecora speciale, immortalata in una fotografia campestre, che è stata scattata in un luogo sperduto di cui sa molto il Sorcio, amico del protagonista, scomparso da tempo e che si rifà vivo attraverso un misterioso messaggio. Insieme alla «sua ragazza» intraprende un viaggio che lo porta a un faccia-a-faccia con se stesso, con la morte e con personaggi che cambiano il suo modo di pensare: l’uomo-pecora, il professor pecora e suo figlio, il Maestro...
Non è il mio preferito, a tratti l’ho trovato un po’ prolisso e inconcludente, ma la magia di Murakami sta proprio lì, nel rendere alla fine interessante quello stesso vagare che a volte sembra fine a se stesso. Non lo è. Non lo è mai, ma a maggior ragione in questo romanzo che trova la sua ragione proprio alla fine, in quel sospiro di sorpresa che ti coglie quando si uniscono i puntini... e tutto trova senso nel non-senso. Puro Murakami, appunto.
Possiamo vederci una metafora dell’insensatezza delle cose che alla fine trovano comunque il proprio posto; oppure una grande parabola sulla vita in cui si cerca si cerca e alla fine si va così lontano da ritrovarsi allo stesso punto; oppure, ancora, un tête-à-tête con i propri fantasmi, proiettati all’esterno da noi, ma che prima o poi ci chiederanno il conto. C’è anche una profonda riflessione sulla società, la nostra contemporanea, che chiede concretezza e razionalità, ma è incapace di creare una vera unione di ideologie e culture. C’è una frase che riassume molto bene quello che intendo. È qui, secondo me, il punto nodale del libro:
La vera follia del Giappone del ventesimo secolo è stata l’incapacità di imparare qualcosa dagli scambi con le colonie asiatiche. Lo stesso vale per la nostra relazione con le pecore. Se l’allevamento delle pecore in Giappone è stato un fallimento, è perché le abbiamo considerate soltanto in funzione della carne e della lana che forniscono. Mancava totalmente un’ideologia a livello di vita comune. Abbiamo cercato di ottenere soluzioni efficienti risparmiando sul tempo. È stato così in tutto. Insomma, non siamo rimasti con i piedi per terra. Niente di strano che abbiamo perso la guerra.
Perché per Murakami tutto, anche il fantasy e le “assurdità” più estreme hanno radici profonde nella Storia e nella cultura del proprio Paese. E tutto, dunque, si fa metafora...
Nel segno della pecora, di Murakami Haruki, Einaudi, 2013 (1982), 307 pagine. Traduzione di Antonietta Pastore. In fondo, un piccolo glossario