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Le figlie del capitano, di Maria Dueñas




A tutti coloro che la vita ha costretto a emigrare.

Di suo avevo letto La notte ha cambiato rumore e mi era piaciuto moltissimo. Questo Le figlie del capitano è indubbiamente scritto molto bene, i personaggi sono disegnati benissimo, la storia è potenzialmente affascinante. 
La vicenda si svolge negli anni Trenta a New York tra le tortuose strade della zona ispanica, in cui Emilio Arenas apre il locale El Capitan. La moglie, Remedios e le tre figlie, Victoria, Mona e Luz, ragazze splendide e dal carattere volitivo lo raggiungono da Malaga. Ma proprio alla vigilia dell'apertura, Emilio muore per un incidente e inizia l'Odissea delle ragazze, bloccate in America senza soldi, senza amici e senza terra. Riusciranno a tornare in patria o ognuna di loro troverà un motivo per restare in quel grande crocevia di razze e nazionalità, tra amori ed emarginazione, che è la Grande Mela?
Maria Dueñas parla soprattutto di come ci si sente a essere immigrati: un'altra lingua, un'altra cultura, altre abitudini alimentari, altri riti sociali... A come ci sente a sentirsi sempre le posto sbagliato, nell'epoca sbagliata, nei panni di gente sbagliata. In bilico tra voglia di progresso e attaccamento alle proprie radici, le tre ragazze Arenas impareranno a diventare americane restando spagnole, in un mondo in profondo cambiamento, attraverso l'amore e la caparbietà, passando tra le difficoltà con tenacia, forza e un pizzico di sana delinquenza... Mona vuole fare il cabaret, il teatro e la canzone, Luz vuole diventare una stella come Rita Hayworth, ma non hanno fatto i conti con il luogo in cui lo vogliono fare e le persone a cui hanno pestato i piedi...
Incertezza, angoscia, insicurezza, esitazione. Loro lo ignoravano, ma tutte quelle sensazioni spesso erano la patria comune degli esuli, le grandi inquietudini che straziavano l'anima di quasi tutti coloro che avevano abbandonato il proprio mondo in cerca di un altro migliore. [...] Nelle minuscole lavanderie dei cinesi, negli oscuri ristoranti napoletani, nelle piccole sartorie degli ebrei o nei carretti degli ambulanti tedeschi: ovunque c'era sempre un istante in cui bisognava per forza dire sì o no a qualcosa.

La storia, dicevo, è costruita bene, ma in generale, il libro non mi è piaciuto fino in fondo. È un po' prolisso in certe parti, la tira molto in lungo e soprattutto apre molte parentesi che alla fine vengono chiuse sbrigativamente (per esempio la vicenda di suor Lito o quella dell'oculista innamorato di Mona di cui si parla tantissimo all'inizio e poi praticamente scompare senza colpo ferire, boh!). Troppa carne al fuoco secondo me, troppe situazioni, troppi personaggi che non vengono seguiti bene. Ovviamente questo è solo il mio parere. Il libro è comunque piacevole e scritto bene.
... scorbutica e lamentosa come sempre, con il grembiule consunto e la crocchia sfatta, a protestare per ogni cosa, a maledire l'America e gli americani, a gridare al vento la nostalgia del mondo da cui proveniva, quel mondo che aveva idealizzato da lontano trasformandolo in un paradiso idilliaco che non era mai esistito. 

Note a margine: Come capita spesso con questo tipo di romanzi storici, la cosa che più salta all'occhio è il parallelismo con i nostri tempi. Siamo tutti immigrati di qualcuno. Eravamo noi, gli europei, gli immigrati in America negli anni Venti-Trenta così come oggi gli extracomunitari lo sono da noi. Abbiamo un bel piangersi addosso per come siamo stati trattati oltreoceano, ma noi siamo forse diversi, oggi, con gli altri? Le comunità residenziali e commerciali dei quartieri ispanici e italiani di cui parla la Dueñas sono forse diversi dalle nostre Chinatown? O dai "ghetti contemporanei" arabi o indiani di grandi città come Parigi? La storia si ripete, sempre; le culture del "padroni in casa propria" sono ormai radicate nei popoli come la gramigna in un orto. Evolvere, questo dovrebbe essere il fine ultimo. Intanto leggere è un timido passo verso, almeno, la conoscenza della realtà...

Le figlie del capitano, di Maria Dueñas, Mondadori, 2020 (2018), 579 pagine. Traduzione di Elena Rolla.  

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