Ospito Gabriele Lopez, che ha letto questo libro che viene considerato già un classico dell'ecologia...
Che cosa fate quando il vostro mondo incomincia a crollare? Io vado a fare una passeggiata e, se ho davvero fortuna, trovo funghi. I funghi mi riportano in me, non soltanto – come i fiori – per i loro colori sgargianti ed i loro profumi, ma perché spuntano in modo del tutto inaspettato, ricordandomi quanta fortuna ho avuto nel trovarmi proprio lì. Allora so che esistono ancora piaceri tra i territori dell’indeterminazione!
Comincia così Il fungo alla fine del mondo, a metà tra un saggio scientifico e un immaginario viaggio tra le rovine del capitalismo. Diventato in pochi anni un classico dell’ecologia, affronta l’argomento della nascita, ricerca e raccolta dei Matsusake, ovvero uno dei funghi più preziosi e ricercati in Asia,
Il libro/racconto di Anna Lowenhaunpt Tsing spazia tra varie sfaccettature che abbracciano ecologia, antropologia e storia, ma il punto veramente interessante sono i parallelismi tra una situazione naturale che deriva da una rovina o, nel migliore dei casi, da un intervento poco attento del’uomo e le opportunità che questo tipo di situazioni possono generare.
Si dice che dopo l’attacco nucleare americano su Hiroshima la prima forma di vita a spuntare fu proprio il fungo matsusake che per sua natura è in grado di digerire le rocce vive ed essere lo stesso elemento che, per esempio, permette a un pino di nascere e crescere. Lo stesso meccanismo avveniva durante i disboscamenti selvaggi nell’epoca d’oro del commercio di legname in Oregon, quando le foreste venivano abbattute a livello del terreno in modo disattento ed egoistico.
L’azione dell’uomo, così come un disastro naturale a esso collegato, creano le condizioni perché questo prezioso elemento naturale possa esistere, e allo stesso tempo ridisegnano la foresta stessa, perché da quel momento tutta una serie di condizioni dovranno essere mantenute perché la luce che filtra tra gli alberi, il terreno e la flora dovranno essere mantenute nello stato ideale. Questo permetterà agli animali del paesaggio contadino di tornare a esistere; uccelli, arbusti e e fiori arricchiranno di nuovo le quattro stagioni. Diventerà un faticoso lavoro di amore e la sostenibilità della natura emergerà dal livello di umanità che gli uomini sapranno dimostrare.
In cambio, tutta una generazione di uomini tradita da un commercio egoista, reduci di guerra, amanti della natura e persone che non si sono mai adattate a un modello economico così come lo avevamo immaginato, potranno avere una possibilità di sopravvivenza imparando l’arte di una danza attenta alla ricerca di questo ricercatissimo fungo pagato a peso d’oro da un mercato di gente facoltosa che detterà le condizioni stesse perché questo processo non potrà né dovrà interrompersi.
Uno dei mercati più floridi per il matsusake è il Giappone,
da cui hanno avuto origine i primi esemplari. Dopo il boom economico che seguì
la ripresa giapponese dalla Seconda Guerra Mondiale, il popolo si lasciò alle
spalle le compagne per seguire beni e stili di vita moderni. Tuttavia, quando
la crescità rallentò negli anni Novanta, né l’istruzione né il lavoro rappresentavano una strada così semplice per una società basata sul continuo
progresso. Fioriva l’economia dello spettacolo, ma sempre più distaccata dalal
vita reale.
Divenne sempre più difficile immaginare la vita senza basarla
esclusivamente sui propri beni. Una figura emblematica attirò l’attenzione su
questo problema: l’hikikomori è un giovane, di solito adolescente, che si chiude
in camera e rifiuta ogni genere di contatto con il mondo esterno, vivendo solo
attraverso i media elettronici e rifiutando la società reale, in una sorta di
prigione autocostruita.
Fu l’incubo di molti professori che iniziarono a portare gli studenti nelle campagne, dove lui e gli studenti potevano ricrearsi, per esempio rivitalizzando il satoyama, termine che in giapponese indica un complesso di strutture socio-ecologiche comprendenti villaggi, terreni agricoli, boschi secondari e/o artificiali, terreni da pascolo, bambusaie e stagni d'irrigazione creati e coltivati dall'uomo nel corso di un lungo tempo. Pini, uomini e miceti si rinnovano in un momento di co-esistenza, aprendo un varco tra un mondo di alienazioni.
Questo, a molti livelli, ridisegna i confini di proprietà private che possono essere mantenute in stato ottimale in cambio dei matsusake che potranno offrire a una comunità di precari, che non possono pianificare ma che quindi devono continuamente osservare e usare i sensi, imparare, proteggere, educare, comprendere.
Molte ricerche dimosrtrano come le spore possano viaggiare nell’atmosfera, o essere trasportate dai viaggi dell’uomo, pronte a trovare terreno fertile proprio laddove l’azione umana ha clamorosamente fallito, e creare nuove opportunità, sulle rovine del capitalismo.
Non è difficile, e nemmeno mancano degli esempi nel libro, immaginare nel nostro quotidiano un parallelismo di qualche tipo dove, da una situazione chiaramente distruttiva, nasca un opportunità di reinventarsi che ci obblighi a rimettere le cose al loro giusto posto, poiché i nostri bisogni resteranno sempre correlati. E sebbene il mondo non sia in marcia verso una direzione propriamente etica, esistono ancora numerose possibilità ai margini e sulle rovine del capitalismo.
Il fungo alla fine del mondo, di Anna Lowenhaupt Tsing, Keller, 2021 (2015), 413 pagine. Traduzione di Gabriella Tonoli