C'è una convinzione, che lettura dopo lettura si consolida dentro di me: le aspettative fottono. Scusate il termine, non proprio elegante, ma è l'unico che mi viene in mente. Sì, perché a furia di leggere commenti entusiastici, mirabolanti, a sentire urlare al capolavoro da ogni angolo del globo letterario, si finisce con il pensare che un libro sia un libro eccezionale e che quindi ci dovrà piacere tantissimo, da spellarsi le mani per gli applausi, da piangere di commozione davanti a cotanta beltade. Ecco, a volte invece un libro acclamato da tutti come un capolavoro, ci lascia completamente indifferenti, forse ancora di più che se avessimo pensato di avere tra le mani un libro "normale". Questo è quello che mi è successo con Il racconto dell'ancella di Margaret Atwood. La totale indifferenza, condita da un po' di noia; non negando, naturalmente il fatto che la Atwood scrive in modo sublime, questo è certo. Ma la storia in sé mi ha lasciata fredda, insoddisfatta, un po' innervosita (un po' come mi era già capitato con La donna da mangiare, in effetti; forse la Atwood, in fin dei conti, semplicemente non fa per me).
Sulla storia proprio due parole, che tanto, tra la "nuova vita" del libro e la serie tv, la sapete un po' tutti: in un futuro non troppo remoto (anche se il libro è del 1985 per cui sicuramente all'epoca era più remoto di adesso) il mondo è devastato dalle radiazioni chimiche (cosa che si intuisce durante un breve passaggio, ma che non è un fatto approfondito) e gli Stati Uniti davanti alla minaccia della natalità zero, trasformano il proprio Stato in un regime in cui la donna è catalogata in base alla sua possibilità di avere figli, con tutto quello che comporta in termini di libertà personale e di gerarchia sociale. Le Mogli godono dello status privilegiato di intoccabili, ma sono costrette a vedere le Ancelle riprodursi con i propri mariti, di cui poi cresceranno i figli. Le Nondonne, quelle che non posso più riprodursi, vengono mandare a smaltire le scorie tossiche, a mani nude, perché considerate ormai inutili alla società. La donna è quindi creatura preziosissima o completamente eliminabile a seconda dello stato del proprio apparato riproduttivo. All'interno di questo sistema, non può non nascere il germe di una rivolta, che (forse) maturerà fino a cambiare le cose.
Ma è tutto un forse, la Atwood non ce lo dice. Il libro è la fotografia di una situazione che però rimane nei limiti della cornice, di cui mai ci vengono svelati i retroscena, quello che c'è dietro la macchina fotografica né tantomeno quello che c'è dietro i volti e le pose dei protagonisti ritratti. Scritto in prima persona da Difred, un'Ancella, in passato moglie e madre, il libro attraversa la sua vicenda da un punto di vista strettamente soggettivo. Le persone della sua vita precedente – il marito, la figlia (scomparsi) e l'amica che diventa prostituta libera dopo essere scappata dal suo destino di Ancella – attraversano come fantasmi la narrazione e di loro si sa poco e niente, se non quello che ricorda e sogna Difred. Del resto lo dice lei per prima:
Questa è una ricostruzione. È tutta una ricostruzione. È una ricostruzione degli avvenimenti che in questo momento io faccio nella mia testa, mentre sono distesa sul mio letto a una piazza ripetendomi ciò che avrei o non avrei dovuto dire. Se mai uscirò di qui...
Ecco, qui sta il succo. Non c'è un prima – se non in sporadici flash che Difred ci racconta sotto forma di sogni – non c'è un dopo – il romanzo non finisce, resta in sospeso, aprendo più finali in base a quello che ci piace pensare, espediente che ho sempre trovato un po' "facile", un po' un modo di non prendere una posizione (che immagino non fosse l'intento di una scrittrice coraggiosa come la Atwood, ma alla fin fine, questa è la sensazione che mi ha lasciato). Ma in realtà, non c'è nemmeno un durante: i personaggi – il Comandante, gli Occhi, le Mogli, le Marte (ovvero le serve), le Ancelle che si susseguono come compagne di Difred, che ogni tanto spariscono o si suicidano – sono tutti a malapena tratteggiati, come se la Atwood non andasse a fondo di nulla, come se lasciasse al lettore una libera interpretazione di tutto. Che andrebbe anche bene, se non fosse una vicenda ambientata in un mondo distopico e quindi "inventato". Forse se ci fosse un po' più di chiarezza, un po' più di contestualizzazione, se non fosse tutto appena accennato, ma ci fosse una forte presa di posizione su un mondo orribile, ma ritenuto necessario per la sopravvivenza del genere umano; se ci fosse una più approfondita analisi dei personaggi o degli ambienti, allora forse mi avrebbe interessata di più. Il Muro, per esempio: è ovvio che i riferimenti al Muro di Berlino (nel mondo della Atwood il Muro cadrà solo quattro anni più tardi, per cui è ancora ben presente nell'immaginario di tutti, anche nel Canada del 1985) e al Nazismo (metafora stra-abusata ma sempre affascinante) sono chiarissimi, soprattutto a livello iconografico, ma poi rimangono lì, senza che questo Muro o questo Regime prendano una posizione all'interno del racconto. Ma così l'ho trovato estremamente evanescente e non mi sono appassionata né alla storia né ai protagonisti.
La scrittura della Atwood è sublime. Adoro il suo modo di descrivere le emozioni e le astrazione agganciandole sempre a qualcosa di molto concreto, a oggetti, a sensazioni fisiche:
Sono come una stanza, dove un tempo accadevano delle cose e adesso non accade nulla, tranne il polline delle gramigne che crescono là, fuori dalla finestra, e che viene soffiato all'interno come polvere sul pavimento.
Ma proprio perché amo la sua scrittura sono rimasta delusa dalla trama e dal modo di disegnare i personaggi.
Alla fine del libro, una fantasiosa trascrizione di Atti del congresso del Dodicesimo Simposio di Studi Galaadiani del 2195, "spiega" un po' di cose: struttura del Governo e della popolazione, leggi, quello che è successo e che ha reso necessari i drastici provvedimenti... ma arriva un po' tardi. Avrei preferito leggerli all'inizio per avere un quadro un po' più chiaro di dove la Atwood vuole collocare la vicenda.
Insomma, un po' nebuloso il tutto.
Lo consiglio a chi ama i distopici, ma senza farsi troppe illusioni di trovarsi davanti un libro appassionante come Fanrenheit 451 o 1984, o, a suo modo, il ciclo della Torre nera di King. Niente di tutto ciò. Per me un romanzo introspettivo a metà, un distopico a metà, un politico-sociale a metà...
Note a margine: Ho sentito chiamare Il racconto dell'Ancella profetico. Ecco, dissento profondamente. Nonostante al giorno d'oggi si sia tornati a parlare di femminismo in molte accezioni, trovo che Il racconto dell'Ancella non abbia niente da dire al femminismo contemporaneo. Quello della donna come mera macchina riproduttiva è un concetto mi sembra superato, almeno nella cultura occidentale. Un mondo possibile di questo tipo è molto improbabile. Mi viene in mente Sottomissione di Houellebecq, quello sì disegna uno scenario attuale, inquietante, ma anche "esplorabile". Mentre qui io mi sento di trovarmi davanti a un fantascientifico più che a un distopico, ma senza la sufficiente fantasia. Insomma, un fantascientifico a metà. Forse quel «Ci sono domande?» finale è la genialata del libro...
Il racconto dell'Ancella, di Margaret Atwood, Ponte alle Grazie, 2017 (prima ed. 1985), 398 pagine, traduzione di Camillo Pennati
Il gatto nella foto: questi piccoli multipli d'arte seguono i percorsi immaginati dall'autrice, Antonella Cicalò, ma possono interpretare anche il flusso dei pensieri del committente che darà così lo spunto per realizzare il suo personale “gatto maestro”, unico e irripetibile. Questi collages sono realizzati con frammenti di riviste letterarie e da collezione, stagnola, legno da recupero e componenti industriali del pet food. Ogni pezzo è unico. Per visitare il suo sito, qui !