Mah, che si può dire: Andrea Bajani scrive benissimo, questo è indiscutibile. La bellezza della costruzione delle frasi, il potere evocativo, la forza della narrazione sono indubbi. L’anniversario si è meritato il Premio Strega? Non lo so, non sta a me giudicare e mi interessa anche poco. Forse no, ma è importante? Quella che è chiara è l’urgenza che si percepisce in questo breve e intenso romanzo. L’urgenza di raccontare una storia, la sua, forse una catarsi? Sicuramente un modo di far conoscere al mondo una situazione comune a moltissime famiglie, spesso taciuta per vergogna, o per paura, o semplicemente perché quella è la realtà e non si pensa sia poi così speciale, o terribile, o strana.
Mia madre era distratta perché, pur di salvarsi, si era trasferita altrove, in uno spazio intermedio tra il succedersi delle cose e il suo prenderne atto.
Una donna sottomessa, una madre che forse è amorevole, capace di slanci sentimentali immensi, ma impossibilitata a dimostrarli, così abituata a rendere la sua vita a misura di gabbia. Una gabbia imposta soprattutto dal marito, il padre, ma anche dalla famiglia di origine, dalla società, dal ruolo di moglie e madre e in parte, forse, anche da sé stessa. Un isolamento che lei interrompe solo per una rapida fuga a Roma, che sarà più breve del previsto, e dagli squilli del telefono. Quegli squilli che diventano come un codice morse, una richiesta di aiuto. Quegli squilli a cui a un certo punto il protagonista – che racconta la storia in prima persona – smette di rispondere. E non risponderà più per dieci anni. Per dieci anni non rivedrà i suoi genitori. «Sono stati i dieci anni migliori della mia vita».
Lui voleva che lei fosse niente per potere, lui, essere qualcosa, e lei voleva essere niente perché essere niente era almeno qualcosa.
Un bambino diventato adulto che della sua infanzia ricorda soprattutto l’impotenza della madre e la sopraffazione del padre, ma che forse non è ancora capace di rimetterli insieme quei ricordi.
... in ogni scena – mio padre che colpisce il figlio a mani nude o lo spinge contro il muro pronto a farlo – mia madre non compare. O meglio, in ogni scena mia madre guarda altrove. Più che il corpo di mio padre che sovrasta, è quello di lei che si sottrae. Quel sottrarsi, per timidezza o per timore, è quello che mi resta.
La cosa che mi ha colpita è l’impersonalità con cui Bajani scrive. Dice «mio padre», ma «il figlio», non «me». Dice «sovrasta», non «mi sovrasta». Come se volesse mettere una distanza verbale tra lui e sé stesso. Del resto per uno scrittore, quale migliore scudo di difesa se non la parola? Non chiama mai i genitori o la sorella per nome e non si nomina mai. È solo per rendere la vicenda universale? Forse, ma la sensazione è che sia per non aderire davvero alla storia, per essere altro da sé almeno per il tempo di un romanzo. Naturalmente questa è solo la mia sensazione, ma rende tutto molto potente.
In realtà non so se mi è piaciuto o no. Trovo sempre molto noioso questo continuo ravanare letterariamente intorno al proprio ombelico, ma penso anche che questo sia un romanzo di pancia, scritto su una spinta interiore molto forte che si sente, si percepisce tra le pagine, come un’energia. Non è mai melenso né scontato. Ed è breve, non sbrodola, sceglie cosa dire e lo dice con molta semplicità. Coglie dei lati della realtà molto personale ma allo stesso tempo molto riconoscibile, contemporaneo. Alcune immagini sono veramente efficaci: quella del telefono a brevi squilli che dicono di più di un intero discorso è quella che mi è rimasta più impressa.
Chissà, forse alla fine mi è davvero piaciuto.
L’anniversario, di Andrea Bajani, Feltrinelli, 2025, 127 pagine.