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Santuario, di William Faulkner

 

Santuario, di William Faulkner

Tra i grandi scrittori americani (penso a Steinbeck, Salinger, Fitzgerald, O’Neill, Hemingway...) Faulkner è quello che conosco meno. Lessi anni fa Luce d’agosto e ne restai incantata. Poi mollai L’urlo e il furore, da ragazzina un po’ demens, ce l’ho lì e devo riprenderlo in mano. Ma, non so perché, è un autore che no ho mai approfondito, a differenza di Steinbeck o di Hemingway – Salinger proprio non mi piace, ma questa è un’altra storia. Poi, a Bologna, entro in una “libreria” meravigliosa, Marsalotto Passalibro, di cui parlerò in un post dedicato per una nuova rubrica... Metto libreria tra virgolette perché Marsalotto è un progetto vero e proprio, in cui i libri si acquistano a offerta libera – con la raccomandazione di non essere t-rex – e sono tutti di seconda mano, tanti a tema politico; per intenderci, dubito che si trovi Il mondo al contrario, ecco. È meraviglioso curiosare tra i libri usati, anche di edizioni molto vecchie. Tra queste ho preso una vecchia Mondadori, del 1984, di Santuario di William Faulkner con introduzione di Fernanda Pivano, che ci racconta le origini di questo romanzo così “scandaloso” per il suo tempo; e pensare che questa versione, uscita nel 1931, è molto edulcorata rispetto a quella buttata giù in tre settimane da Faulkner, che di Santuario dice:

[Era] un’idea da poco, concepita soltanto per fare quattrini. 

Devo premettere che quando l’ho letta – dopo aver letto il romanzo perché non leggo mai le introduzioni prima – questa frase mi ha spiegato un po’ di cose. In primis la mancanza di descrizioni di atmosfera che ho trovato in Luce d’agosto e anche nella prima parte de L’urlo e il furore. Mi è sembrata una scrittura molto cruda, quasi impersonale, carente della pastosità stilistica dell’autore. Non è che mi sia piaciuto fino in fondo, ma ne riconosco il grande valore inserito nel contesto storico e sociale, e la potenza di significato. 

La storia è nota, complici anche le versioni cinematografiche (visibili per intero su YouTube), che curiosamente hanno titoli italiani che sono all’estremo opposto di Santuario: Perdizione (The Story of Temple Drake, Stephen Roberts, 1933) e Il grande peccato (Sanctuary, Tony Richardson, 1961), come a giudicare condannando la sordida storia che raccontano, quasi a discolparsi, ad assolvere, a far finta che non sia quello il riferimento letterario (mentre vediamo che i due titoli americani non hanno di questi pudori; ah, la grande ipocrisia del Belpaese!).

Quindi, la trama, semplicissima: negli anni del Proibizionismo una giovane ragazza della società bene di Jefferson, Mississippi (città immaginaria), Temple Drake, scappa dalla residenza scolastica per incontrare il suo spasimante, Gowan Stevens, che, ubriaco, fa un incidente in macchina nei pressi della casa di un contrabbandiere distillatore di liquori che conosce, Lee Goodwin; con la scusa di andare a cercare un meccanico – in realtà per la vergogna di non aver retto l’alcol, una notazione al convenzionalismo della classe media e al suo “machismo” – lascia lì Temple, che viene messa a dormire dalla moglie di Goodwin, Ruby, in un fienile, controllata da un componente della banda, Tommy. Il sifilitico e impotente Popeye uccide Tommy e stupra Temple con una pannocchia, con frustrazione, poi scappa e la porta con sé, lasciandola nel bordello della signorina Reba a Memphis, a uso e consumo di un uomo che Popeye assume per fare sesso con lei mentre lui guarda e che poi uccide. Contemporaneamente Lee viene accusato e incarcerato ingiustamente per la morte di Tommy e Ruby si rivolge a un avvocato, Orazio Benbow, che indaga sull’omicidio. Ma la giustizia non appartiene a questa storia e finisce tutto molto male, in un vortice di violenza e cattiveria che trascina tutti in un abisso nero. 

Le storie parallele sono tutte tragiche, pochissimo spazio viene lasciato al bene, alla speranza o alla morale. La critica negli anni ha trovato moltissimi simboli nella storia, nei personaggi, nei luoghi, ma forse non ci si ricorda delle parole che Faulkner ha sempre usato per descrivere il suo lavoro:

Uno scrittore è troppo occupato a creare personaggi in carne e ossa che stiano in piedi per avere tempo di rendersi conto di tutto il simbolismo che può aver messo in quello che ha scritto [...] Stavo semplicemente scrivendo storie tragiche e vere che uscivano dal cuore umano.

Ecco perché mi piace Faulkner. Perché lascia ai personaggi e alle loro azioni il compito di portare avanti la narrazione senza fronzoli, senza perdersi in una ricerca spasmodica dell’empatia, che infatti io non ho provato per nessuno. La crudezza e la secchezza con cui descrive azioni e scrive i dialoghi rende Santuario non solo agghiacciante, ma profondamente umano, lasciando al lettore una sensazione di viscidume e di amoralità fino all’ultima frase. Non ci sono personaggi positivi, neanche Temple lo è, con la sua malizia, la sua incoscienza e la sua doppiezza quasi, che a volte la rendono quasi più carnefice che vittima. E Popeye, che sembra incarnare il male assoluto, in realtà forse è un uomo traumatizzato, impotente, frustrato, cattivo per dolore... L’avvocato, infine, è un fedifrago, piuttosto antipatico, con una sorella megera. Insomma, non si salva nessuno, in questo universo che più che di perversione sembra essere pieno di poveri diavoli che non trovando un posto nel mondo cercano di affrancarsi con tutti i mezzi, non trovando però una via di fuga se non nella morte. 

La scrittura è sempre straordinaria, asciutta ma piena di tutto. Ma non è neanche necessario parlarne. Faulkner è Faulkner.

Del resto, se uno scrittore riesce a mettere insieme una frase così... che altro vuoi dire? 

Ella non era mai stata molto proclive a discorrere; viveva un’esistenza serena e vegetativa, come del grano o del frumento coltivato in un giardino ombreggiato anziché in un campo...

Assolutamente da leggere, ma tenendo presente il periodo storico e senza giudizio.

Santuario, di William Faulkner, Mondadori, 1984, 349 pagine. Traduzione di Paola Ojetti. Il link a cui rimando è dell’edizione Adelphi con la traduzione di Mario Materassi, del 2019. Sicuramente più moderna, ma l’introduzione di Fernanda Pivano è una chicca dell’edizione Mondadori della foto.


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