Ma che libro straordinario! L'avevo già letto, ma visto che l'ho fatto nel 2006... diciamo che è un po' come se fosse una prima lettura. Mi ricordo poco i libri letti l'anno scorso, figuriamoci... Però che era bellissimo lo ricordo. Michael Cunningham – di cui sta per uscire il nuovo libro, Day, dopo dieci anni di assenza – è famosissimo per il Premio Pulitzer Le ore, anche film strepitoso, e il romanzo merita parecchio, ma questo... È il suo secondo romanzo, pubblicato nel 1990 (e segnerà anche il debutto cinematografico di Michael Mayer che ne farà un film nel 2004), che lo lancia come grande autore nel panorama letterario statunitense in un momento particolarmente brutto per il mondo omosessuale, quando l'Aids diventa una malattia davvero terrorizzante, ghettizzante e una calamita per quelle che oggi chiameremmo fake news, di pregiudizi e di cacce alle streghe (non che ora non ce ne siano, ma almeno sull'argomento Aids, un pochino, poco, ma ci siamo un po' evoluti. Ribadisco: poco). Tenendo presente che ha vinto nel 1999 il Gay, Lesbian, Bisexual and Transgender Book Award, si comprende l'importanza che Cunningham riveste in quel settore letterario.
La trama, in brevissimo: Siamo a Cleveland e poi a New York – la città dei desideri impossibili e quella della realizzazione dei sogni – e poi, infine, la campagna, in cui l'anima si quieta.
Uno dei vantaggi di vivere a Cleveland è che in qualsiasi direzione tu vada ti sembra un progresso.
Bobby e Jonathan hanno entrambi un'adolescenza complessa segnata da lutti e famiglie che oggi chiameremmo disfunzionali, che una volta erano semplicemente difficili, con madri sbarellate e padri più o meno assenti. Ma sono molto diversi: Bobby è chiuso e sembra a tratti quasi pericoloso tanto è distaccato dalle cose; ama la musica, ascolta senza tregua Van Morrison; ha il mito di Woodstock e sogna di viverci un giorno; vuole cucinare; sembra che nulla lo tocchi e che sorvoli la vita con invidiabile indifferenza, con poco desiderio per le cose terrene, anche per il sesso; ma proprio per questo è capace di gesti di incredibile altruismo.
... non avendo bisogno di altre sensazioni che non fossero i primi fiocchi di neve a novembre e il sibilo quasi umano di una puntina a contatto col vinile.
Jonathan è attratto da tutto, è entusiasta, ama senza riserve; fa il giornalista a New York, vuole un figlio; vive le cose con profondità e paure; è un perenne immaturo in attesa di crescere, come se la vita adulta dovesse sempre essere affrontata il giorno dopo...
Fino ad allora avevo vissuto per il futuro, in uno stato di permanente attesa [...].
Si conoscono a scuola e sentono immediatamente affinità, diventando presto inseparabili e scoprendo insieme i propri corpi e le proprie tendenze sessuali, esplicite in Jonathan, più incerte in Bobby. Per una serie di vicissitudini, Bobby finisce a vivere con i genitori di Jonathan – Alice e Ned – mentre Jonathan studia e poi vive a New York, insieme a Clare, quarantenne eccentrica, con una vita sentimentale disastrosa alle spalle, ben contenta di programmare di fare un figlio con il dolcissimo coinquilino gay. Ma quando Bobby va a vivere con loro in un piccolo appartamento Downtown cambia tutto: lui e Clare si “innamorano” e Jonathan continua ad avere la sua vita amorosa disordinata, anche se con la costante del giovane e disarmante amante Erich, barman aspirante attore, che però si ammala Aids. Alla fine tutto troverà una collocazione nella vita di tutti, anche se a prezzo di tremendi abbandoni e scelte d'amore.
Penso che Una casa alla fine del mondo sia un libro sulla ricerca inesausta dell'amore e dell'equilibrio, che ogni volta viene rotto dall'invasione involontaria di qualcosa di esterno che, come un bacillo, come la malattia, alla fine scompagina le carta e disperde gli individui. Tutti i personaggi si chiedono chi amare, come amare, dove amare... dove vivere, dove crescere i figli, dove disperdere delle ceneri, dove crescere e dove morire... Dove e con chi. Coi nuovi amori? Con i vecchi? Con amanti che non hanno più nulla da dare? Con genitori propri o altrui? Con i figli? O, in ultima analisi, con sé stessi? Costante: proprio quell'amicizia tra Bobby e Jonathan che sconfigge il tempo, la morte e l'abbandono...
A volte è ancora difficile distinguere ciò che è accaduto da ciò che poteva accadere.
Un libro sublime, scritto da Dio; ai capitoli si alternano in prima persona le voci dei protagonisti: Bobby, Jonathan, Clare e Alice. Cunningham è bravissimo a dissezionare i personaggi e a tenerli coerenti e vivi dall'inizio alla fine. Mi ha ricordato un po' Jonathan Coe e un po' John Irving, per quella particolare capacità di entrare nelle vite intime di personaggi inventati, trattandoli come se fossero parte della propria vita, attribuendo loro carattere peculiare, paure, desideri, aspettative... È indubbiamente un romanzo sull'essere umano e sulla Storia in cui si muove. Tra le righe, si respira forte l'aria dell'America di quegli anni, difficile da respirare, piena delle tossine del pregiudizio e della paura, incline al futuro ma terribilmente legata agli stilemi di vita del passato... spazzati via da esseri unicellulari invisibili e letali...
Un grande romanzo, di un grande autore, di cui non vedo l'ora di leggere l'ultimo romanzo sperando di poter dire: «Ben tornato».
Una casa alla fine del mondo, di Michael Cunningham, Bompiani, 2005 (1990), 368 pagine. Traduzione di Ettore Capriolo (il link rimanda al libro edito da La Nave di Teseo nel 2020, perché quello di Bompiani si trova solo usato)