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Lo Sbarbato, di Umberto Simonetta

Umberto Simonetta è conosciuto principalmente come drammaturgo e come paroliere di Giorgio Gaber con, per esempio, Il Riccardo e La ballata del Cerutti; suoi sono Mi voleva Strehler (il mitico monologo portato in scena per anni e anni da Maurizio Micheli) e Sta per venire la Rivoluzione e non ho niente da mettermi: testi mitici, diventati archetipici di un periodo, di un genere teatrale e di un territorio, la Milano del Piccolo Teatro e delle sue mille luci, di una nuova concezione del teatro e dell'arte. E mitici furono gli anni Sessanta, in cui tutto sembrava possibile, in cui si voleva riformare la scena, la vita intellettuale tra i cittadini, in cui la cultura al centro della vita sembrava davvero un obiettivo raggiungibile. Ma anche anni di grandi divari sociali e generazionali, di delinquenza e di bar malfamati. E il bar diventa a sua volta luogo archetipico di incontro/scontro, in cui lo Sbarbato incontra il Mangia. Due ragazzi agli opposti: Mario, liceale, appartenente alla borghesia milanese dei professionisti che hanno la casa in centro; il Mangia, “figlio di nessuno” che vive ai margini della legalità, in giro per Milano a cercare il proprio furtarello da piazzare (da qui il soprannome). E da sfondo il bar Torretti di via Torino - anch'esso luogo archetipico, “il“ bar, lo stereotipo del crocevia dei “tipi“ milanesi più svariati: qui si ritrovano i due delinquentelli un po' sfigati l'Ernesto del Tic e l'Angiolino; l'Etabeta con la faccia a triangolo come il fumetto; il Bianco, che beve solo vino bianco ed è il pervertito del quartiere; la Graschelli, ragazzotta bruttina e sboccata che non ha niente a che fare con Grace Kelly, ma è l'amica di tutti (anche in senso sessuale). E Mario, il borghesuccio un po' sfigato – lo Sbarbato – si lascia affascinare dal mondo della piccola criminalità, inizia a rubacchiare e poi si spinge un po' più in là, per comprarsi il motorino, per emanciparsi da una famiglia che gli sta stretta, fino a diventare un piccolo “zanza”, tanto da farsi mettere in guardia dallo stesso Mangia, che invece cerca di mettere la testa a posto, lavorando e trovandosi una ragazza: imprese fallimentari, vista la sua classe sociale e la sua fama. 

Entrambi vogliono quello che ha l'altro: lo Sbarbato vuole la libertà e la fama da duro del Mangia; il Mangia vuole la sicurezza economica dello Sbarbato. Una storia classica, che Simonetta scrive con la sua solita, grandiosa ironia, mista all'amara atmosfera della Milano della scighera dei Sessanta. Una Milano che non esiste più e di cui io personalmente sento molto la mancanza pur non avendola vissuta. Ma anche se sono figlia degli anni Settanta, la ricordo la Milano di una volta. Era più semplice e più vera. Non voglio fare la lacrimosa nostalgica di quando «oh, come si stava meglio». Lungi da me. Ma devo ammettere che a leggere Lo Sbarbato mi è venuto in mente quando in via Torino c'era il biliardo dove si passavano le serate a bere birra e a giocare con sconosciuti che poi magari diventavano anche amici; e c'era il cinema con una sala sola dove si poteva fumare e restare dentro a vedere il film due volte; e si poteva entrare nei bar e chiedere al barista il solito perché non vedeva migliaia di persone al giorno e si ricordava e si poteva spettegolare e andavi lì e conoscevi tutti e anche se andavi da sola la serata a chiacchierare con qualcuno riuscivi a passarla sempre, anche quando eri triste. Una Milano (un'Italia, un mondo) più semplice, più scura e nebbiosa forse, ma dove le persone si incontravano davvero, ognuna con i propri scazzi, ma si incrontravano... Mi manca molto...

Simonetta mi ricorda il Testori de Il ponte della Ghisolfa, de Il fabbricone e de La Gilda del MacMahon (anche un po' La nebbiosa di Pasolini) anche se i personaggi di Testori (e di Pasolini) sono più popolari, in lotta con la difficile vita quotidiana del proletariato e del sottoproletariato della periferia – più “marci", anche –, mentre quelli di Simonetta sono più borghesi, più “centrali”... ma quella Milano lì... quella si è persa nelle nebbie – come Avalon – e ogni tanto ricordarla fa bene al cuore. La nostalgia per ciò che non si è vissuto... io ne soffro molto. 

Lo Sbarbato è il primo capitolo di una trilogia sulla gioventù milanese cui seguono Tirar mattina e Il giovane normale da cui è tratto un film di Dino Risi del 1969 (con Lino Capolicchio, da poco scomparso) che vedrò quanto prima. Sono stati ripubblicati da poco da Baldini+Castoldi e penso valga la pena leggerli tutti e tre.

Nella foto di apertura c'è un vinile di Jannacci del 1964: la presentazione del disco è di Luciano Bianciardi; giusto per dire il livello di quei tempi...

Lo Sbarbato, di Umberto Simonetta, Baldini+Castoldi, 2021 (1967), 205 pagine. Una nota di merito altissima alla copertina: una fotografia di Nino Migliori del 1959 che, anche se si intitola Gente dell'Emilia, è perfetta per rimandare l'atmosfera del romanzo.

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