Un libro stupendo. Che mi ha lasciata una sensazione come di polmone perforato. Ma anche un vuoto alla base del diaframma, che è sollievo e gioia, nonostante il dolore. Di Valentina D'Urbano avevo letto Quella vita che ci manca e mi era piaciuto, sì, ma l'avevo trovato mediocre, poi visti i tanti commenti molto positivi che ho trovato in giro, le ho dato una seconda possibilità: e ho fatto non bene, benissimo!
Attraversare le cose senza lasciarsi attraversare.
Celeste, Pietro e Nadir sono fratelli. No, non tutti tra loro: Pietro è fratello sia di Celeste che di Nadir, ma Nadir e Celeste non sono fratelli fra di loro, non hanno nessun gene in comune, mentre Pietro ha il gene di tutti. Quindi, Pietro è il trait d'union di tutti e tre, la summa, la crasi di due caratteri completamente diversi, ma ugualmente distorti, che in lui si sublimano in un essere umano complesso, profondo, unico. Conoscendosi già ragazzini, Celeste e Nadir si passano i sentimenti attraverso Pietro: la gelosia, il senso di possesso, il rancore, l'amore. Si amano da quei primi giorni a Feudi, a bordo piscina nella grande casa della zia di Nadir, Olga. In modo cattivo, furioso, alterato. Celeste soffre di osteogenesi imperfetta, in parole povere è una "donna di vetro": le sue ossa si rompono, si sgretolano, la rendono fragilissima, in grado di spezzarsi al minimo tocco. Nadir è eterocromo, ha un occhio azzurro e uno marrone, è brutto, spigoloso e asimmetrico. Due pezzi spezzati che si incastrano creando una strana creatura perfetta, forte, bellissima. Pietro è "normale", sano, una persona qualunque, che è però spezzata a sua volta in due dalla sua intelligenza e dalla sua voglia di fare qualcosa di importante nel mondo. Si arruola in Siria contro l'Isis, tra gli Internazionalisti, e muore, lasciando che l'imperfezione renda incontrastata nella famiglia, lasciando a frantumarsi gli ultimi frammenti di Celeste e Nadir, finché non troveranno la colla per tornare a ricomporsi: l'amore. Quell'amore morboso, malato, crudele che li accompagnerà fino alla catarsi e alla redenzione di entrambi. Fenici con le ali spezzate, ma pur sempre in volo, insieme.
Le parole creano recinti, corde, un cappio che non stringe ma resta lì a segarti il collo per tutta la vita. Allora meglio così, dimenticarsene, lasciar perdere, semplificare le cose e fingerci normali.
Detto così può sembrare melenso, è vero. Ma la splendida scrittura della D'Urbano lo rende un libro veramente pazzesco, di sublime profondità e feroce dolcezza. I personaggi sono disegnati benissimo, coerenti, completi, affascinanti ognuno a modo suo. La complessità della scelta narrativa è ammirevole: tutto il romanzo è scritto in prima persona da Celeste e nonostante questo non cade nella trappola dell'autoreferenzialità del personaggio. La storia scorre, si capisce cosa avviene nella vita di tutti, si capiscono i caratteri anche filtrati da quello di Celeste, che non è certo un carattere mediocre. Fragilissima fuori ha dovuto costruire una corazza interiore per proteggere gli organi interni - cuore, polmoni, fegato - dagli urti del modo là fuori. Ha ingoiato tanto acido da liquefare ossa, tendini, nervi, budella. Ma è in piedi, zoppa, ma in piedi; per metà appoggiata a quella roccia che è Nadir, così sconclusionato e disordinato, ma così forte, forse il più forte di tutti e tre.
Il legame dei tre ragazzi è spaventoso agli occhi del mondo. Troppo forte, troppo assoluto, troppo morboso... troppo e basta. E la D'Urbano sottolinea questo aspetto attraverso una scrittura ferocemente corporea: tutto è ricondotto al corpo, ai tendini, ai muscoli, è tutto un mordere, leccare, cadere, esplodere, sudare, stringersi, abbracciare, picchiare, afferrare; è ricca di umori, di liquidi; crea immagini di sculture plastiche o lignee. C'è un riferimento molto interessante che riconduce a questo: Nadir è un fotografo e porta Celeste a vedere una mostra di Sally Mann, fotografa americana i cui migliori soggetti sono i suoi figli (stupendo il suo progetto Immediate family), da sempre considerata controversa per il suo modo "ambiguo" di mostrare il corpo dei bambini, spesso nudi o abbigliati come adulti. Non è, penso, un caso se la D'Urbano ha scelto un'artista che fa del corpo un mezzo potente per comunicare. Celeste viene attratta dall'immagine di una ragazzina su una sedia da giardino, in cui si riconosce, in cui Nadir la riconosce.
Al di là della storia e delle vicende, quello che mi ha rapita è la costruzione dei personaggi e dei legami fra di essi. La profondità in cui l'autrice si immerge, come compisse un viaggio attraverso il corpo e la corteccia cerebrale dei suoi protagonisti. La passione di Pietro per la sua "causa", una causa che si è scelto, non ci è nato dentro, ma la abbraccia fino a sentire il desiderio di morire per essa; la tenacia con cui Celeste ama Pietro e sceglie di vivere dritta, in piedi, a testa alta nonostante i mille dolori fisici e intimi che la affliggono giorno per giorno, di cristallo dentro e d'acciaio fuori; il caos di Nadir, la sua finta strafottenza, la sua ricerca dell'estremo, il suo fare sempre la cosa che meno ci si aspetta da lui... La miscela esplosiva di questi tre individui così diversi ma appartenenti «alla stessa radice» sarà in grado di resistere anche a una miscela esplosiva reale che si porta via un pezzo, ma non ha abbastanza forza da rompere il legame; anzi, quel che rimane diventa talmente compatto da risultare indistruttibile.
Un plauso alla citazione di La locomotiva di Francesco Guccini, che è una delle mie canzoni preferite.
Tre gocce d'acqua, di Valentina D'Urbano, Mondadori, 2021, 369 pagine. Solo un appunto sulla copertina, che trovo molto brutta e molto distante dal libro, ma non si può avere tutto...
Nella foto di apertura: Sally Mann, Fallen child, 1989, tratta da Immediate family, edizioni Aperture, 1992 (purtroppo penso introvabile).